Intervista a Francesca Levi-Schaffer, professoressa di immunofarmacologia, Università Ebraica di Gerusalemme
Israele ha molto successo nel campo della scienza e tecnologia, con molti premi Nobel e svariati marchi che ogni anno sono registrati. Come si spiega il successo scientifico?
Penso che la prima ragione sia culturale, radicata nella tradizione ebraica. L’ebraismo dà molta importanza allo studio e ha sempre dato valore all’eccellenza intellettuale. Lo studio, la ricerca e l’analisi sono fondamentali nella tradizione ebraica e hanno di certo influenzato l’approccio israeliano a scienza e ricerca. La tradizione religiosa ha anche contribuito molto. Io sono laica, ma riconosco che la tradizione religiosa ebraica ha contribuito fortemente all’amore per la conoscenza e la ricerca.
In secondo luogo, il primo presidente di Israele fu Chaim Weizmann, un grande scienziato. Eccellere nella scienza e nella tecnologia in Israele è una tradizione. Ogni anno per Yom Haatzmaut, il Giorno dell’Indipendenza, il presidente fa un discorso alla nazione, durante il quale si parla anche di scienza, che è parte dell’orgoglio israeliano.
In cosa consiste la sua ricerca?
Il mio campo di ricerca è la farmacologia e l’immunologia, in particolare le allergie. Studio i meccanismi che il corpo umano mette in atto durante le reazioni allergiche e il ruolo delle cellule che causano allergie e alcuni tipi di cancro.
I successi più rilevanti nel suo campo?
Posso dire d’esser stata proprio io a cominciare in Israele gli studi in questo campo, unendo immunologia e farmacia. Israele è sempre stata molto forte nel campo dell’immunologia, per esempio nel settore dei vaccini sintetici, ma molto meno in farmacologia, quindi ho deciso di unire nella mia ricerca le due materie. Rappresento anche Israele alla “International Union of Basic and and Clinical Pharmacology” (IUPHAR). Ho tre brevetti di farmaci da sperimentare, due per l’asma e altri per curare la mastocitosi e la leucemia mastocitica.
La vicinanza tra ricerca e ricerca applicata è un’altra caratteristica del mondo
scientifico israeliano.
È una vicinanza molto importante. Nel mio caso sono stata assistita dalla mia università per trovare fondi per questi brevetti. Non si è trattato solo di finanziamenti, ma anche si assistenza amministrativa e legale nelle procedure di riconoscimento del brevetto. Israele ha svariati sistemi di finanziamento di ricerca scientifica e industriale, nel mio campo come in altri, perché si capisce l’importanza della ricerca applicata. Come parte della commissione per i nuovi farmaci del Ministero della Salute, vedo molte domande di approvazione di nuovi medicinali, il che è per me fonte di grande orgoglio, perché significa che la ricerca scientifica e applicata evolvono.
Nel suo campo l’etica è anche un aspetto molto importante.
L’etica ha un ruolo centrale nella ricerca scientifica in Israele, e anche questo è dovuto alla cultura ebraica. Nella tradizione ebraica, la vita è il valore supremo, e così anche l’alleviamento delle sofferenze. La vita è il primo e più importante valore, ancor più importante della curiosità scientifica o della necessità di sperimentare nuovi medicinali sulle persone. Ogni caso di nuovo medicinale è analizzato in tutti i possibili sviluppi etici, per garantire la dignità della persona.
L’individuo, l’essere umano hanno un’importanza centrale in Israele, nella ricerca e nella sperimentazione. Giusto di recente, un nuovo medicinale è stato introdotto sul mercato negli Stati Uniti e in Cina per sperimentazione, ma noi lo abbiamo vietato in Israele perché non rispondeva ai nostri parametri etici riguardo alle conseguenze sui pazienti. È un motivo in più per cui Israele mi rende orgogliosa.
E circa la cooperazione internazionale?
Israele è molto impegnata a livello internazionale. Anche ora con quanto sta accadendo ai confini settentrionali di Israele, accettiamo di curare nei nostri ospedali pazienti siriani, pur non avendo relazioni diplomatiche con la Siria. Non ci interessa che siano amici o nemici, se sono Hezbollah o ribelli siriani, fondamentalisti islamici o altro. Sono esseri umani e come tali sono curati negli ospedali israeliani.
Per un lungo periodo abbiamo anche avuto intense relazioni con Paesi africani, che si sono spesso interrotte per la crescente islamizzazione delle società in Africa.
Posso dare un esempio personale. Ho scoperto che non ci sono studi sulla dermatite atopica che si sviluppa sulla pelle nera. Evidentemente finora nessuno si è interessato ancora a questa malattia. Per questo sto ora cercando con il Ministero Affari Esteri israeliano di incominciare una ricerca proprio su questo fenomeno.
E dentro Israele?
Le istituzioni scientifiche israeliane accolgono persone di ogni cultura, nazione o religione. Nel mio gruppo di ricerca c’è un ragazzo druso del nord, che ha appena terminato la laurea specialistica, una ragazza araba cristiana e una araba musulmana. Ho anche uno studente indiano, che è qui con una borsa di studio offerta dal governo israeliano.
Quando si parla di standard etici, si intende anche insegnare la scienza a tutti, indipendentemente dalla loro fede o dal loro credo o dalla loro identità etnica. Il 40% degli studenti della Scuola di Farmacia all’Università Ebraica di Gerusalemme è arabo, con gli stessi diritti e doveri.
Non ci interessa che siano uomini donne, cristiani musulmani drusi o altro; noi puntiamo
all’eccellenza scientifica.
Come sono le relazioni tra Italia e Israele in campo scientifico?
Sotto il governo Berlusconi sono stati firmati numerosi accordi di cooperazione con Israele nel campo della ricerca scientifica. L’Italia è ora il terzo Paese, dopo Stati Uniti e Germania, con cui Israele ha più collaborazioni scientifiche.
Il mio primo brevetto è stato sviluppato in collaborazione con gli scienziati dell’Istituto “Gaslini” di Genova; collaboro con i fratelli Lorenzo e Alessandro Moretta a una ricerca sul recettore CD300A,
trovato nelle cellule killer naturali MK, che colpiscono solo gli elementi cancerogeni e non le cellule sane. Ho trovato lo stesso recettore nelle cellule allergiche che studio io (mastociti e eosinofili), che proteggono dalle reazioni allergiche (broncospasmi, per esempio).
Molti altri miei colleghi hanno relazioni con italiani, che riconoscono la situazione difficile in Italia.
In più, gli israeliani amano l’Italia, dove trovano sempre collaboratori eccellenti.
E sul boicottaggio degli scienziati israeliani cosa può dire?
Credo che gli scienziati non s’interessino personalmente alle politiche anti-israeliane. Nonostante sia israeliana, ebrea e donna, sono stata nominata come membro, presidente e vice-presidente di varie istituzioni scientifiche e mediche internazionali. Come membro dello IUPHAR dovrò a breve recarmi a Città del Capo in Sudafrica, uno Stato molto impegnato nel boicottaggio contro Israele. Sono convinta che molti scienziati guardino a cosa Israele ha da offrire, che è molto; la gente vuole vivere una vita migliore e Israele contribuisce al miglioramento della vita in maniera sostanziale.
Così possono anche boicottare Israele, ma non possono fare a meno di Israele.
Spesso gli scienziati preferiscono non venire in Israele come forma di boicottaggio, così sono gli israeliani a doversi recare all’estero per conferenze e seminari. Si avanzano sempre molte scuse per non venire in Israele, come la paura di attentati, dei soldati e altre ancora. Uno scienziato sudafricano, per esempio, non accetterebbe facilmente di venire in Israele per via della politica anti- israeliana del suo governo. Personalmente non sono mai stata vittima del boicottaggio, ma sono stata attaccata di persona e insultata poiché sono israeliana.
A suo avviso, a cos’è dovuto questo clima anti-israeliano anche nella scienza?
È una questione di politiche governative. Quando uno Stato ha una politica anti-israeliana, le singole persone non vogliono contrastare la politica ufficiale dei loro governi. Ci sono anche casi di antisemiti che odiano Israele o di ebrei che esprimono il loro “politicamente corretto” schierandosi contro Israele per essere accettati dalle società in cui vivono.
Ero a Milano la scorsa estate per tenere un corso di aggiornamento, cui partecipavano persone da tutto il Medio Oriente: sapevano tutti che sono israeliana, perché metto sempre una bandiera di Israele nella pagina iniziale delle mie presentazioni, ma non hanno detto nulla a riguardo. Nei loro Paesi hanno paura di dire che sono in contatto con me, e questo lo noto soprattutto negli egiziani, che temono molto più che non gli iraniani di avere rapporti con colleghi israeliani–e questo dimostra come sia una questione di pressione sociale. C’è anche l’antisemitismo, che però di manifesta in tipici discorsi antisemiti, ma non in boicottaggi.
Dobbiamo andare oltre. Abbiamo premi Nobel e Israele contribuisce allo sviluppo dell’umanità. E questo la gente lo trova insopportabile.
La sua vita in Israele?
In Israele ho trovato una patria non solo come ebrea, ma anche come scienziata. Israele importa eccellenze e questo è quel che conta. Nessuno si è mai interessato del fatto che sia una donna e ho fatto carriera solo per i miei meriti e per il mio lavoro. Ho una studentessa araba che ha appena vinto un premio del governo israeliano: sono sicura che farà carriera, anche all’interno del governo, ma non per una forma di sostegno alle minoranze, ma perché è talentuosa.
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